ITALY, MY LOVE






“Italy, my love” di Domenico Del Monaco assomma in un'originale sintesi più generi letterari. Quello del romanzo storico-saggistico, ricostruendo le condizioni dei prigionieri di guerra italiani in Gran Bretagna durante il secondo conflitto mondiale, con le loro implicazioni sociali e i risvolti di politica interna e internazionale. Quello del thriller, perché gli echi di quelle vicende - ormai lontane e "rimosse" dalla coscienza collettiva europea - giungono in realtà fino ai nostri giorni,  dando luogo a un'appassionante ricerca che rivelerà sorprendenti ed emozionanti esiti odierni. E quello del romanzo di formazione, mettendo a confronto una giovane coppia italiana con una di anziani coniugi inglesi che quegli eventi hanno vissuto. Una storia di amicizia e di incontro fra diversi mondi,  il cui filo conduttore è costituito dall'amore per la verità storica e umana che l'autore ha profondamente investigato con puntiglio, partendo dalla diretta conoscenza fortuita della vecchia signora protagonista di questo avvincente "dialogo" fra tempi, persone e popoli.      

dalla recensione di Paolo Vigato 



 

CAPITOLO 6 – Toft Hall

«Vincenzo era un ragazzo gentile, taciturno e sempre preoccupato» dichiarò Emily con malcelata indifferenza, dettata dal desiderio di apparire distaccata da quei fatti, quando, dopo il pranzo, riprese il suo racconto. «Mi aveva colpita per la sua composta sofferenza e per la volontà di non far pesare la sua dolorosa condizione. Ricordavo le ultime parole di mio padre che, dopo aver compreso il mio bisogno di dare una mano a quei giovani smarriti, mi aveva messo in guardia rispetto ai rischi che avrei potuto correre. Non intendevo trascurare le sue raccomandazioni, ma volevo aiutare quel ragazzo dal sorriso dolce e buono: nei suoi occhi avevo letto grande amarezza e desideravo che pur immerso nella tragedia della guerra potesse anche lui trovare qualche momento di serenità.
«Il parco di Toft Hall era immenso, e io ero al corrente che la domenica mattina ai prigionieri italiani era permesso passeggiarvi “liberamente”, ma sotto sorveglianza. Di solito percorrevano il sentiero centrale che conduceva a un chiosco dove era possibile fermarsi a riposare. Sapevo quindi come fare per incontrarlo di nuovo. Così in un giorno di festa mi feci accompagnare da Elisabeth, una mia compagna di scuola che aveva una simpatia per Antonio, il prigioniero che veniva a casa nostra ad aiutare mia madre nelle faccende domestiche. Non fu difficile trovarli insieme, riuscendo in quel modo anche a camuffare  quell’abboccamento come un fatto fortuito. Vincenzo fu contento di rivedermi, e quando gli spiegai la ragione per cui nelle ultime settimane mi ero dovuta dileguare, si mostrò dispiaciuto nonché preoccupato di apprendere che mio padre era stato convocato dal direttore del campo. Prima lo rassicurai e poi gli dissi che non ci saremmo dovuti più incontrare a Toft Hall, ma solo nei giorni festivi. E così facemmo.
«Quando non era freddo restavamo all’aperto, ai margini del bosco, spesso seduti su una panchina di pietra ai lati di una grande fontana di ardesia; d’inverno invece, ci rifugiavamo in una zona riparata del bosco, in un capanno dismesso dove le guardie forestali, prima della guerra, tenevano gli attrezzi per la manutenzione delle piante e dove si poteva anche accendere il fuoco. Parlammo molto di noi in quei mesi: Vincenzo mi raccontò che abitava in un piccolo paese vicino a Napoli, Trecase, ai piedi del Vesuvio. Suo padre aveva una piccola azienda di carrozze trainate da cavalli, con le quali portava a spasso i turisti. Vivevano bene, ma con la guerra era andato tutto in rovina, e per di più adesso c’erano anche le bestie da mantenere.
«Era il terzo di cinque figli e con gli altri quattro fratelli, in estate, si tuffavano spensierati dagli scogli e facevano il bagno in mare più volte al giorno, perché il caldo era sempre soffocante. A me quell’idea dei ragazzini scatenati che stavano tutto in giorno in acqua suonava buffa e divertente, pensando a quanto dovesse faticare la madre per riportarli a casa interi. Poi, quando era arrivata la guerra, erano partiti tutti, tranne la piccola Caterina, che aveva quattro anni ed era rimasta con i genitori. Della sua famiglia non aveva saputo più niente: erano vivi? Morti? Feriti? Niente, buio assoluto. Aveva provato a scrivere ma non aveva ricevuto alcuna risposta.
«Ragionai con lui: a Toft Hall la posta dei prigionieri era controllata e certamente i tempi per l’inoltro erano lunghi. In Francia i tedeschi avrebbero potuto bloccarla e in Italia, sempre i tedeschi che occupavano ancora tutta la penisola, non avrebbero gradito far viaggiare la corrispondenza proveniente dall’Inghilterra: quasi certamente l’avrebbero fermata, se non addirittura distrutta. Insomma, in quegli anni spedire una lettera dal Regno Unito in Italia era una missione disperata. Consigliai a Vincenzo di avere pazienza ancora qualche settimana, poi avrei provato io a intestare la busta per la sua famiglia, così da saltare almeno il controllo di Toft Hall: l’avrei fatta spedire da una mia compagna direttamente da Manchester. Lui mi ringraziò ripetutamente per la disponibilità, dicendomi che ero una buona amica: mi diede un bacio sulla guancia e mi regalò un lungo sorriso. Quel gesto m’intenerì e mi rassicurò sulla sensibilità d’animo di quel ragazzo. Gli chiesi se al suo paese avesse una fidanzata: mi rispose di sì, si chiamava Assuntina, ma anche di lei non aveva più saputo nulla.»
Non sempre Emily riusciva a mascherare il distacco da quegli avvenimenti perché, mentre parlava, l’emozione prendeva spesso il sopravvento, la voce si faceva incerta fino a fermarsi nella gola, costringendola a interrompersi qualche istante per tossire. Poi, ripreso fiato e scusatasi per la sospensione, continuava.
«Una volta, mentre eravamo nella capanna del bosco, fummo sorpresi da una guardia forestale che per fortuna lavorava anche per mio padre ed era una persona buona: si chiamava Bob Preston. “Cosa ci fai qui, Emily? Il fumo si vede da lontano”, chiese preoccupato. “Stiamo chiacchierando”, risposi, “non facciamo niente di male. Ma non dirlo a mio padre, per favore: si arrabbierebbe”. “Ok, ma spegnete bene il fuoco prima di andarvene.” E si allontanò tenendo per sé quella innocente scoperta. Non avendo molti altri posti dove ripararci, tornammo spesso in quel capanno, facendo attenzione che non ci fosse in giro qualcuno.
«In un’altra occasione Vincenzo mi confidò la grande nostalgia che aveva per la madre e quanto il ricordo di lei, senza ricevere sue notizie, lo tormentasse. Un giorno quando la simpatia tra noi era diventata più spontanea e naturale, mi raccontò della drammatica esperienza che aveva vissuto in Libia, allorché gli italiani erano impegnati a difendere Bardia prima di essere catturati. Preceduto da un violento bombardamento dal mare e dal cielo, il contrattacco degli inglesi non si era fatto attendere e la sua compagnia era dovuta fuggire a piedi con il generale Bergonzoni, ma era stata spinta verso i campi minati perché la costa era passata sotto il controllo dalle artiglierie britanniche.
«Aveva visto i suoi compagni esplodere sopra le mine, le loro carni sfracellarsi in brandelli, urlando e chiedendo aiuto, mentre lui, impotente, era rimasto sgomento: non aveva potuto fare altro che ascoltare quelle urla laceranti trasformarsi in atroci lamenti. “È terribile vedere una persona dilaniata da una mina” mi spiegò. “Una parte del corpo è ridotta in frammenti e l’altra, lacerata ma ancora viva, si muove, grida e implora la morte”. Continuava a ripetermi che si era salvato solamente perché loro erano morti prima di lui! Nel rievocare quei fatti si era messo a piangere: quei ricordi erano ancora troppo vivi e dolorosi e io non riuscivo a quietarlo. Cercai di abbracciarlo ma mi respinse: non voleva che lo toccassi. La sua voce si era fatta incerta e le mani gli tremavano. Cercavo il suo sguardo, ma era come in trance, non mi vedeva più, ero scomparsa dal suo campo visivo. La sua emotività era accentrata sulle immagini della tragedia e la sua mente era ancora inchiodata lì con suoi compagni.
«Fu un momento penoso e angosciante anche per me: la sofferenza e la disperazione che leggevo nei suoi occhi mi teneva con il fiato sospeso, incapace di aiutarlo. Quando finalmente si calmò, mi disse che la notte si svegliava sempre con quell’incubo. Erano passati quasi due anni da quei fatti, ma lui li viveva ancora come fossero accaduti ieri. Vincenzo si sentiva come un naufrago sopravvissuto a una violenta tempesta che, per fortuna o per disgrazia, lo aveva depositato su una spiaggia sconosciuta; e lui, come in un sogno, era alla ricerca di un qualunque segnale utile per orientarsi su un terreno ignoto, ansioso d’individuare una via d’uscita. Nel tentativo di liberarsi da quel drammatico fardello aveva cominciato a raccontare agli altri prigionieri la sua esperienza disperata, ma più si addentrava in quelle vicende drammatiche più si sentiva risucchiato dalla tempesta che lo aveva travolto e portato in intimo contatto con la morte, la quale, non paga del prezzo che aveva già riscosso, risvegliava ancora con la sua prepotenza gli scenari di distruzione e sofferenza di cui il giovane soldato era rimasto vittima insieme ai suoi compagni.»
Di fronte a quella rievocazione drammatica, la tristezza di un tempo sembrava tornare ad assalire Emily che per qualche istante si fermò, pur consapevole che quelle immagini lontane erano superate e non dovevano farle più paura. Chiuse gli occhi, deglutì e dopo un profondo respiro si tranquillizzò, il suo viso si distese e proseguì il racconto.
«Ero provata da quella tragica testimonianza; avrei voluto consolarlo e fargli sentire che gli ero vicina, ma capii che voleva stare solo e rispettai il suo desiderio. Gli dissi solamente che parlarne ancora gli avrebbe fatto bene e che quando avesse voluto raccontarmi di nuovo quell’episodio, lo avrei ascoltato. Dai suoi gesti e dalle sue parole compresi che era un ragazzo generoso e dai sentimenti delicati, non un nemico dal quale doversi proteggere. E come lui, chissà quanti altri giovani a Toft Hall avevano sofferto per analoghi episodi drammatici. Avrei voluto dirlo a tutti, a cominciare dai miei genitori: ai miei compagni di scuola, ai negozianti del paese che irridevano i prigionieri italiani e non volevano che girassero per le strade neanche la domenica. Fu allora che si consolidò in me il pensiero che la guerra è una mostruosità che ci rende tutti crudeli, trasformandoci in belve che devono uccidersi a vicenda in risposta a una malattia da cui siamo stati contagiati.
«A quel tempo però non sapevo distinguere ragionevolmente il bene di molti dalla follia di pochi, eppure pensavo che un mezzo ci sarebbe dovuto essere per proteggere i primi e isolare i secondi, e che quel mezzo andasse trovato al più presto perché vedevo che anche le persone buone subivano gli effetti nefasti di quella malattia. Per mitigare la tensione scaturita dal racconto doloroso di Vincenzo, cambiai argomento. Iniziai a parlargli della festa che stavamo preparando a scuola con i nostri insegnanti, ma mi accorsi che lui era distratto, trattenuto ancora dalle pastoie di quelle immagini terribili. Allora lo richiamai una, due, tre volte, senza posa: “Ascoltami, ascoltami Vincenzo”, finché riuscii a ottenere di nuovo la sua attenzione e potei riprendere il mio racconto.
«Si trattava di uno spettacolo in cui ogni classe si cimentava in diverse prove a scelta, tra recitazione, composizione di testi e canto. Ogni alunno avrebbe dovuto optare per la disciplina artistica in cui si sentiva più portato. Cercai di coinvolgerlo, prima che la sua mente si perdesse di nuovo. “Tu quale sceglieresti?” gli chiesi a bruciapelo. Si sentì spiazzato da quella domanda improvvisa, ma poco dopo rispose: “Il canto”. “Il canto?” ribattei meravigliata. “È la stessa preferenza che ho votato io!” esclamai, felice che fosse in sintonia con me. Quindi gli chiesi di farmi sentire una canzone nella sua lingua. Lui dapprima si schermì dicendo di non essere nello stato d’animo per cantare, poi di non esserne capace, ma infine di fronte alla mia insistenza accettò d’improvvisare e così ascoltai per la prima volta un classico della canzone italiana: O sole mio. Restai a bocca aperta.
«Sebbene non capissi una parola, la musicalità della canzone era meravigliosa e Vincenzo bravissimo. Ridemmo anche insieme, perché non sempre era intonato. Comunque, grazie a quello stratagemma, ero riuscita ad allontanare dalla sua mente i tentacoli dei suoi orribili ricordi. Una volta coinvolto nel mio racconto fu lui a chiedermi: “Adesso devi farmi sentire il pezzo che stai preparando”. Così mi esibii anch’io in un classico, almeno per le famiglie anglosassoni: Sunrise, sunset[1], dove il sorgere e il tramontare del sole rappresentano metaforicamente l’inizio e la fine della vita. Quando ebbi finito, il sorriso era ricomparso sul suo viso. Mi disse che ero stata brava, e che avrei dovuto continuare a studiare canto perché avevo del talento. Naturalmente mi fece piacere sentirglielo dire, ma ancor più gioia riuscirono a trasmettermi i suoi occhi luminosi che tornavano ad accendersi, e percepivo che non desideravo niente più di quello. Non gli dissi che non studiavo canto e che non lo avevo mai studiato, né che ero una ragazza fortunata perché avevo una predisposizione naturale per la musica. Non gli dissi alcunché di tutto ciò perché, in quel momento, non mi interessava. Volevo solo rallegrarmi del sorriso che era riapparso sul suo volto.
«Le settimane passarono lentamente e continuammo a vederci solo nei giorni di festa, talvolta anche insieme a Elisabeth, che era diventata amica di Antonio e passavamo con loro tutto il tempo che era concesso ai ragazzi. Un giorno Giovanni, un altro amico di Vincenzo, ci rivelò che la fattoria in cui lavorava era infestata dai topi; se ne trovavano molti soprattutto in mezzo alle patate. Il padrone allora aveva deciso di regalare ai prigionieri un penny per ogni roditore che avrebbero catturato, e alla sera, prima di tornare al campo, i lavoranti gli mostravano i topi uccisi e ritiravano il loro premio. E spesso, durante il giorno, in attesa dei pennies che avrebbero ricevuto alla sera, scommettevano fra loro su quanti sorci sarebbero riusciti ad agguantare.
«Ciro, un altro amico di Vincenzo, ci svelò una storia divertente, ma per certi versi preoccupante, perché evidenziava l’abilità dei militari inglesi, miei concittadini, di coinvolgere i prigionieri per farli lavorare con sempre più efficacia[2]. Il gruppo nel quale Ciro era stato inserito si componeva di numerosi dissidenti che non volevano collaborare e avevano già ricevuto richiami e punizioni perché i loro sacchi di juta, che avrebbero dovuto riempire di patate, rimanevano quasi sempre vuoti.
«Le guardie inglesi allora, conoscendo la debolezza degli italiani per le donne, avevano escogitato un abile stratagemma. Un giorno, quando i prigionieri erano arrivati sul campo avevano trovato un gruppo di giovani landgirls, ragazze inglesi in divisa militare addette al lavoro in campagna, che li salutavano e sorridevano loro in modo aperto e vivace. Le guardie avevano condotto metà dei prigionieri e altrettante landgirls a un’estremità del terreno, e l’altra metà sul lato opposto in modo che ogni detenuto avesse di fronte a sé una ragazza. Un trattore posto davanti alla linea degli italiani li precedeva e iniziava a sradicare dal terreno le patate che i militari italiani dovevano staccare dalla pianta e mettere nei sacchi che sarebbero stati prelevati da un altro trattore alle loro spalle. Se avessero ultimato il lavoro prima dell’arrivo del mezzo che li seguiva, avrebbero potuto fermarsi qualche secondo con le ragazze che li attendevano alla fine del campo. Se invece fossero stati lenti o non avessero raccolto tutte le patate, non avrebbero beneficiato della gradita pausa con le landgirls. Le guardie e i sorveglianti, raccontò Ciro, avevano trovato il modo non solo di far lavorare sodo tutti i prigionieri, ma di renderli anche più rapidi e produttivi: una sorta di lavoro a cottimo dove la ricompensa era un sorriso e qualche parola indecifrabile da parte di qualche giovane donna inglese.
«I primi giorni furono una prova generale e non successe nulla, ma in seguito i prigionieri impararono che se fossero stati svelti avrebbero avuto qualche manciata di secondi da spendere con le ragazze per guardarsi negli occhi e scambiarsi frasi incomprensibili. La cosa in breve funzionò e ben presto iniziarono i primi approcci amorosi, qualche bacio e qualche rapida carezza, all’insaputa delle guardie. Quando queste se ne accorsero, la loro contrarietà per quelle ambite effusioni fu risoluta, ma a sorpresa, fu contestata non solo dai prigionieri ma anche dalle landgirls che a quel punto, per protesta, corsero a baciare gli italiani davanti agli occhi dei sorveglianti, incuranti delle minacce di punizioni che avrebbero potuto subire. Tuttavia, poiché il metodo si era dimostrato oltremodo utile per la produzione, sia le guardie che i sorveglianti decisero di chiudere un occhio e ogni anno, in occasione della raccolta delle patate, i pows poterono trovarsi la fidanzata.
«Vincenzo intanto, dopo aver saputo che i detenuti disposti a lavorare avrebbero ottenuto un rimpatrio anticipato, si era fatto un po’ più speranzoso e ottimista. Sembrava avere accettato quella condizione di privazione della libertà che avrebbe fatto star male chiunque. Parlava con me più volentieri, cercava la mia mano, mi sorrideva e mi stava vicino, ma raramente mi dava una carezza o un bacio sulla guancia senza che fossi io a chiederglielo, come ad esempio quando ci salutavamo prima di separarci.
«Non era un ragazzo freddo, al contrario lo sentivo affettuoso e premuroso; era pronto a fare qualunque cosa potesse farmi piacere perché mi considerava ormai un’amica, ma io mi aspettavo di più: volevo che si accorgesse di me anche fisicamente. In fondo avevo quasi diciannove anni, ero una ragazza carina, bionda, con gli occhi verdi e una fioritura di lentiggini sul viso che a molti ragazzi piacevano. Invece Vincenzo, che oltretutto da almeno due anni non era più stato insieme a una ragazza, non faceva nulla per farmi capire di essere interessato a me. Elisabeth mi aveva raccontato delle effusioni che si era scambiata con Antonio e che quest’ultimo addirittura avrebbe voluto fare l’amore con lei. Io non volevo arrivare a tanto, ma desideravo che avvertisse l’interesse che avevo per lui e che si faceva ogni giorno più importante.
«Durante una delle nostre ormai frequenti conversazioni in compagnia dei suoi amici, considerato anche che era trascorso più di un anno da quando i prigionieri italiani erano rinchiusi a Toft Hall, chiesi loro se le condizioni di vita nel campo fossero migliorate. Mi risposero che i requisiti materiali erano accettabili: l’alloggio era confortevole e il cibo sufficiente. Pesanti da sopportare invece, erano i vincoli psicologici, sebbene le guardie fossero diventate più disponibili e avessero accordato loro il permesso di formare un’orchestrina che poteva suonare nelle ore di svago. Antonio mi confermò che il punto di svolta era avvenuto quando ai prigionieri era stata concessa la possibilità di camminare senza sorveglianza durante le ore di libera uscita, fermo restando però, tutte le altre restrizioni, specialmente nei confronti dei civili e delle donne.
«In effetti per noi cambiò poco, perché eravamo comunque costretti a nasconderci per trascorrere del tempo insieme. Infine, con i cinque scellini a settimana che i prigionieri ricevevano per il lavoro svolto in campagna, potevano permettersi di acquistare qualcosa allo spaccio del campo. Vincenzo mi diceva che quasi sempre comprava un piccolo sfilatino di pane e una manciata di prugne secche perché sia di giorno che di notte la fame era in agguato, e che la domenica poteva andare anche al cinema allestito all’interno della prigione. Quando gli chiedevo se fosse sereno, mi rispondeva che il suo pensiero era costantemente rivolto alla famiglia e che il suo cruccio ricorrente era la madre, ma anche la miseria che certamente doveva essersi fatta drammatica in Italia, per via della guerra che continuava a generare morte e distruzione; infine, il fatto che sebbene prigioniero, lui godesse di migliori condizioni rispetto a lei, lo tormentava senza posa, tanto più che non poteva fare nulla per avvertirla e nemmeno per aiutarla.
«Mi raccontò che una notte l’aveva sognata mentre fuggiva da un incendio e chiedeva con disperazione il suo aiuto, ma lui, pur chiamandola a squarciagola, non riusciva a raggiungerla. Si era svegliato in preda all’agitazione prima di rendersi conto che si era trattato di un sogno. Cercai di tranquillizzarlo affermando che una prolungata lontananza da una persona cara può giocare brutti scherzi, ma in cuor mio considerai anche che quell’idea persistente della madre sempre bisognosa d’aiuto fosse un po’ esagerata. Capii in seguito che il legame intenso che aveva con la famiglia derivava dalla forte responsabilità che avvertiva nei confronti dei suoi familiari, nonché dai valori e dagli ideali che aveva ricevuto dai genitori.
«Era ancora caldo quando, una domenica, gli lessi con entusiasmo il solito giornale inglese, vecchio di qualche giorno, in cui stava scritto che Mussolini era stato sfiduciato, che il fascismo era caduto e che il Re lo aveva fatto arrestare. In quei momenti ci illudemmo che la guerra potesse finire presto, ma avevamo fatto i conti senza i tedeschi che occupavano tutto il centro-nord d’Italia. Anzi, ora le cose si erano dannatamente complicate, perché dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 i tedeschi sparavano sui soldati italiani che non volevano consegnare loro le armi. Quell’armistizio improvviso e inatteso – complice anche il generale Eisenhower che lo aveva ufficializzato con una settimana di anticipo – aveva colto tutti di sorpresa e provocato lo sbandamento dell’esercito italiano che, abbandonato a se stesso dal re, dal governo e dallo stato maggiore, si era dissolto o arreso, anche se non dappertutto, di fronte alle intimidazioni dei comandi germanici.  
«Se però le condizioni degli italiani si erano aggravate nei confronti dei tedeschi, si erano fatte più chiare con gli anglo-americani, non più nemici ma alleati. Infatti, dopo l’8 settembre, il Re aveva fatto sapere attraverso il generale Badoglio, divenuto il nuovo capo del governo, che la guerra dell’Italia sarebbe continuata a fianco dei nuovi alleati e contro i tedeschi. Ma qual era l’Italia? L’Italia non c’era più, l’Italia era solo un’entità geografica. Mussolini, liberato dai tedeschi sul Gran Sasso, aveva ricostituito il suo esercito a Salò fondando la RSI. Era la guerra civile e gli italiani si trovarono immersi in una lunga stagione di odio. Nonostante quella situazione assai confusa, però, feci notare a Vincenzo che il rovesciamento delle alleanze da parte del Regno d’Italia sarebbe stato un fatto positivo per lui, come per tutti gli altri detenuti: non sarebbero più stati considerati prigionieri ma alleati, quindi sarebbero tornati presto liberi! Purtroppo, invece, mi sbagliavo.
«Da quel momento infatti, tra i soldati italiani iniziarono disordini e risse: da una parte i fascisti favorevoli a Mussolini che marcarono ulteriormente il loro rifiuto di lavorare per gli inglesi, e dall’altra coloro che applaudivano a quel capovolgimento di fronti; la maggioranza comunque restava indifferente a quelle contese e cercava di placare gli animi dei due contendenti. Dopo qualche settimana Vincenzo mi raccontò che, a dispetto di quanto avevamo ipotizzato, per i detenuti poco era cambiato. Gli avevano fatto firmare un foglio che portava come intestazione I promise[3]: una dichiarazione in cui i prigionieri manifestavano la volontà di aiutare gli inglesi a collaborare nella lotta contro i tedeschi utilizzando ogni mezzo, eccetto il combattimento. In cambio avrebbero goduto di alcuni privilegi, come un limitato grado di libertà, l’eliminazione del filo spinato che recintava Toft Hall e la gestione del campo che sarebbe stata affidata a un ufficiale italiano. Il vitto sarebbe ulteriormente migliorato e la libera uscita consentita anche in paese durante i giorni festivi. Insomma, una prigione buona[4], anche se molti altri mesi sarebbero dovuti trascorrere prima di conseguire quel risultato.  
«Firmando quel foglio Vincenzo aveva acquisito il titolo di “cooperatore”, ma quella nuova condizione non aveva cancellato purtroppo il suo status di prigioniero di guerra. In effetti, però, con il passare del tempo le condizioni di vita dei cooperatori, a differenza dei non cooperatori, sarebbero andate migliorando, potendo godere di una maggiore libertà personale fino a poter circolare senza scorta anche per le strade dei villaggi e dei piccoli paesi e poter parlare con i civili, ovviamente solo con gli uomini. Per favorire l’estensione della cooperazione le autorità britanniche avevano anche consentito, ai prigionieri che ne avessero fatto richiesta, di vivere insieme alle famiglie degli agricoltori che li richiedevano, fermo restando i rigidi divieti di avere relazioni o contatti con le donne: divieti che comunque, come si sarebbe appreso alla fine della guerra, furono frequentemente disattesi sia dai militari italiani che dalle donne inglesi.
«Infine, ai prigionieri che avevano deciso di collaborare furono tolte dalle uniformi le pezze bianche che li contrassegnavano come pows e gli stessi ricevettero nuove divise militari, sempre di colore marrone, ma che portavano scritto sulla manica destra unicamente la parola Italy.»
Terminato quel lungo resoconto, la sera, dopo cena, la padrona di casa mostrò qualche vecchia fotografia di quegli anni, ripresa nel parco di Toft Hall: Emily era insieme con altri prigionieri italiani e, in una, era da sola con Vincenzo, alto, magro, la chioma folta e scura, il viso scavato, ma sorridente. «Questa me l’ha scattata Elisabeth», disse soddisfatta, «perché sapeva che desideravo una foto insieme con lui.»
Alla fine i quattro amici si concessero una pausa ascoltando musica lirica, una passione di cui Emily e George non sapevano fare a meno.










[1] Emily ricorda una canzone che rievoca l’inesorabile trascorrere del tempo, il succedersi delle stagioni e l’avanzare della vecchiaia, dimostrando involontariamente una spontanea sintonia con i giovani ospiti italiani. Il testo della canzone è in Appendice.
[2] L’episodio è riportato da Anchise Cordeschi in: La mia odissea e Non tutti tornammo Parte 2. Dal web.
[3] Arrigo Petacco: Quelli che dissero no, Edizioni Mondadori, 2012.
[4] G. Rochat: La prigionia di guerra. Riportato da Isabella Insolvibile: Wops I prigionieri italiani in Gran Bretagna, Edizioni scientifiche italiane, 2012.

 
 

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