di Verona
XVI Edizione - Anno 2018
"Gen. Loris Tanzella"
SEZIONE NARRATIVA E TEATRO
Menzione d'Onore Speciale
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“Si può non nascere zaratino e sentirsi tale nel profondo,
si può non essere esule e descrivere l’esodo con efficace realismo, si può non esser stati educati da
genitori zaratini e portarsi dentro, la formazione e i valori dei nostri veci per generazioni.
Questa la lezione di Domenico del Monaco attraverso le sue
Farfalle di Zara.
Questo il conforto che tante volte abbiamo inutilmente atteso in passato dai nostri
connazionali: è una lacrima asciugata tra le tante che abbiamo versato...
Le farfalle sono le anime di un fratello e di una sorella
zaratini travolti bambini dall’esodo, che agognano di levarsi in volo per tornare a Zara”. (dall'intervista di Rosanna Turcinovich
Giuricin ad Adriana Ivanov Danieli su “La Voce del popolo” del 21 ottobre 2017 in occasione del 64° Raduno Nazionale dei Dalmati a Senigallia - ottobre 2017)
***
Vincitore Premio della Critica per la Narrativa
nel Concorso internazionale "Locanda del Doge" 2017
a Lendinara (Rovigo)
Video della Premiazione
CAPITOLO 8
IL SILENZIO DI DANIELA
Non avevo dimenticato la promessa di Marco di raccontarmi come
fosse finita l’avventura con la ragazza che aveva conosciuto a Belluno durante
il servizio militare, così, appena le circostanze lo consentirono, tornai alla
carica, intenzionata a soddisfare la mia curiosità. Stavamo camminando insieme
in mezzo alla neve, di ritorno da una commissione che nostra madre ci aveva affidato,
quando gli chiesi: «Mi devi ancora raccontare com’è andata a finire con quella
ragazza di Belluno... Elena mi pare si chiamasse».
«Tu però non devi
prendermi in giro!» precisò subito mio fratello, intenzionato a parlarmi ma
anche a essere preso sul serio.
«Va bene, spara.» risposi decisa e sempre più impaziente.
«Sai, volevo dirti anche un’altra cosa a proposito di Belluno...
Sono stato in una casa di appuntamenti, dove ho conosciuto certe ragazze che mi
hanno insegnato come si fa l’amore.» esordì con grande serietà Marco che non
aveva mai avuto segreti per me. E io per riguadagnare la sua fiducia rimasi
imperturbabile come una persona adulta, anche se la mia curiosità era alle
stelle.
«Non posso crederci», ribattei subito, «ma la mamma lo sa?».
«Ma no che non lo sa, figurati! Lo dico solo a te».
«Sì, sì, mi devi dire tutto. Voglio sapere anch’io cosa hai
fatto» risposi, alquanto eccitata da quella novità inattesa e sempre più
interessata a conoscerne i dettagli; così continuai: «Ma è vero che quelle
donne stanno tutto il giorno in mutande e con i seni fuori?» chiesi, dopo
essermi convinta della veridicità delle sue parole.
«Calma, calma, tu sei ancora troppo piccola per questi
particolari. Te li dirò fra qualche anno».
«Ma dai, non essere antipatico», insistetti irritata, «solo
perché l’ultima volta non ho voluto crederti». E dopo una breve pausa, pur di
non perdere il racconto di mio fratello riaprii il discorso che Marco, invece,
stava per chiudere lì: «Comunque con Elena com’è andata?».
«La domenica successiva a quel nostro incontro ci siamo rivisti
e ho messo in pratica quello che avevo imparato.» mi rispose con una semplicità
disarmante che mi lasciò a bocca aperta.
«Vuoi dire che avete fatto l’amore?» chiesi sempre più curiosa.
«Non proprio, ma ci abbiamo provato».
Mio fratello non voleva scendere nei particolari e io non
insistetti per timore che mi tagliasse fuori un’altra volta, così domandai solamente: «E dopo l’hai rivista ancora?», sperando in quel
modo di apprendere altri particolari interessanti.
«No, perché lei andava via per lavoro e io sono dovuto partire,
però ci siamo scambiati gli indirizzi».
Dovetti riprendere fiato per la sorpresa che mi diedero quelle
rivelazioni per me all’epoca così grandi ed emozionanti. Non sarei mai stata in
grado di prevederle né di immaginarle, ma, per qualche strana ragione, mi
facevano sentire particolarmente orgogliosa e ammirata di mio fratello: forse
perché me lo mostravano sotto una luce diversa, come un uomo ormai del tutto
avviato alla vita, della quale stava condividendo con me qualche succulenta
anticipazione. Così, anch’io mi sentivo un po’ più grande, un po’ più donna di
quanto non fossi. Dopo un breve silenzio, fu Marco a rivolgere a me una
domanda: «Tu dici che dopo due mesi lei vorrà ancora vedermi?». Chiaramente,
sperava con tutto se stesso che non deludessi la sua speranza. E io non lo delusi.
«Naturalmente» risposi compiaciuta d’essere già abbastanza
grande da dargli consigli sentimentali.
«Una ragazza che è stata insieme a un ragazzo l’ha fatto perché
gli vuole bene e quindi si farà trovare anche solo per incontrarlo.» risposi
con la semplicità scontata di una donna di quattordici anni.
«Grazie», concluse Marco, «sei proprio un’amica».
Da quell’anno, mentre Marco si era iscritto alla facoltà di
Lettere all’università di Padova, con il proposito di diventare giornalista,
nostra madre iniziò a lavorare come maestra elementare nella scuola del paese.
Pur essendo priva dei documenti necessari a regolare la sua posizione, fu
accettata provvisoriamente, con l’annotazione che si trattava di un’esule
proveniente dalla Jugoslavia, in attesa di preparare una nuova documentazione.
Aveva lasciato il lavoro dai Tosolin, ma continuava sempre ad aiutare in casa
Beatrice e Giovanni e, dopo il suo primo stipendio, aveva deciso di pagare
anche lei una quota di spese per il vitto e l’alloggio della nostra famiglia:
cosa che i suoi padroni di casa non volevano in alcun modo accettare.
«È una spesa che ora posso sostenere. Se non mi permetterete di
contribuire» disse con risolutezza mia madre a Giovanni, «mi costringerete a
cercarmi un’altra sistemazione. Ma mi dispiacerebbe, perché mi trovo bene con
voi».
Di fronte a tanta determinazione, Giovanni e Beatrice non
poterono fare altro che accettare, probabilmente perché anche a loro faceva
piacere che rimanessimo in casa tutti assieme.
Il nuovo lavoro nella scuola aveva dato a mia madre una grande
carica interiore e lei si era gettata in quell’attività con forte slancio e
senza risparmiarsi, come d’altro canto era solita fare per ogni cosa. Metteva
molta cura nel rapportarsi con i bambini, nel preparare le attività da svolgere
insieme a loro: non c’era particolare che non avesse sotto controllo. Così un
po’ alla volta i bambini si affezionarono a lei, riscuotendo anche
l’approvazione e la riconoscenza dei genitori.
Forse perché l’impegno era tanto e avvertiva la stanchezza delle
molte ore che trascorreva a scuola, quando si trovava a casa era molto
taciturna e poco partecipe alle discussioni che si facevano insieme a tavola o
nei momenti di ritrovo. Marco e io fummo i primi ad accorgerci di quella sua
eccessiva riservatezza, ma alla richiesta di qualche spiegazione la mamma ci
rispondeva che si sentiva stanca e affaticata. Poi una sera, Marco scese in
camera prima dell’orario abituale per andare a dormire, e trovò, con sorpresa,
nostra madre inginocchiata al lato del letto che pregava, con le lacrime agli
occhi.
«Mamma, che cosa è successo?» esclamò meravigliato, vedendola
piangere e pregare in solitudine, mentre si avvicinava a lei per asciugarle gli
occhi.
«Nulla, figlio mio» rispose la mamma, tenendo in mano un
rosario, e pronunciando a mezza voce: «mi manca molto tuo padre, lo vedo
laggiù, oltre il mare, dove non potrò mai andare e dove non so come fargli
arrivare le mie parole».
«Mamma, ti prego, non fare così». Poi, dopo una breve pausa:
«Sono sicuro che il papà può sentirti» disse, cercando di sollevare la madre
ancora inginocchiata ai piedi del letto.
«La mia vita non è più la stessa, senza di lui», aggiunse smarrita,
«e quando non ci sono più i bambini a farmi compagnia, vengo presa da uno
sconforto insuperabile. Io gli devo parlare, gli devo chiedere tante cose...
devo farmi dire da lui cosa devo fare».
«Mamma, ci siamo noi adesso vicino a te!» esclamò Marco, ancora
sconvolto nel vedere la madre così provata.
«Sì, è vero, ma “è meglio un marito di paglia che cento figli
d’oro”» replicò d’istinto, ripetendo un vecchio proverbio che aveva imparato
dalla sorella Olga.
«Mamma, che dici! Noi ti vogliamo bene!» protestò mio fratello
sorpreso da quelle parole che gli sembrarono ingiuste e forse anche un po’
crudeli.
Ci fu un lungo istante di silenzio, come un gelo fra loro: per
la prima volta sperimentarono la sofferenza di non potersi capire fino in
fondo. Ma subito dopo nostra madre rispose sicura: «Lo so cosa stai pensando,
ma capirete anche voi quando sarete più grandi...». E tacque senza altre
spiegazioni. Marco l’ascoltava meravigliato per l’intensità di quella frase.
Comprendeva il grande dolore che aveva avvolto la mamma da quando aveva appreso
della scomparsa del marito, ma non capiva tutto il resto. Provò a dirle
qualcosa, a farle una proposta: «Vuoi che domani quando torno da Udine ti
accompagni in chiesa?».
«No, grazie» rispose lei e dopo un attimo di riflessione
continuò: «Se fosse possibile vorrei, invece, che mi accompagnassi in riva al
mare, perché lì mi sembrerà di essere più vicina a tuo padre e potrò illudermi
che le mie parole possano scivolare sull’acqua, attraversare le onde e giungere
a lui, dove si trova ora, anche se non so dove sia». E quindi aggiunse: «Perché
anche lui ha bisogno di me. Noi ci parlavamo molto, e da quando ci siamo
sposati non siamo stati lontani neanche un giorno, come faremo adesso senza più
vederci, sentirci, accarezzarci, raccontarci ogni cosa? Mi sembra d’impazzire».
Marco fu
spaventato da quella confessione così intima e profonda, e rispose: «Devi farti
forte, mamma. Io ti prometto che, in primavera appena il tempo si farà bello,
ti porterò al mare, andremo su una spiaggia deserta e lì potrai raccogliere i
tuoi pensieri e recitare le preghiere per il papà».
«Grazie, figlio mio, sei molto buono, proprio come tuo padre». E
Marco: «Anche a me manca il papà, mamma, ma dobbiamo sostenerci l’un con
l’altro... Vedrai che ce la faremo, ce la farai. A scuola sei bravissima, tutti
parlano molto bene del lavoro che stai facendo con i bambini».
«Quel lavoro mi tiene occupata, mi aiuta a non pensare, ed è
comunque il mio lavoro, è quello che io mi sono scelta, e il proprio lavoro
deve essere sempre fatto bene. Non diceva forse così anche tuo padre?»
incoraggiando il figlio a tenere sempre presente il suo esempio. Quando
terminarono quel lungo colloquio si abbracciarono, Marco asciugò gli occhi
umidi della madre, se la tenne ancora stretta tra le braccia per qualche
minuto, e infine la fece stendere sul letto, mentre lui uscì dalla stanza in
attesa che la madre si spogliasse per andare a dormire. Quando, dopo pochi
minuti, arrivai in camera, mio fratello m’informò che avevano appena deciso di
andare al mare, in primavera, per portare un saluto al papà, che ci attendeva
dall’altra parte dell’Adriatico, e io fui felice di quella decisione, dicendomi
naturalmente pronta ad accompagnarli. L’inverno quell’anno fu lungo, ma piano
piano il tempo cambiò, l’aria si fece mite e gli alberi cominciarono a fiorire,
e con loro anche il desiderio irresistibile di andare a salutare nostro padre.
Sebbene il bisogno di quell’incontro ideale si facesse, per la mamma e per noi,
sempre più forte, dovemmo lo stesso aspettare maggio prima di poter uscire
senza l’ombrello. Partimmo una domenica, di mattina presto, per arrivare a
Grado, e avere abbastanza tempo per fermarci un po’ sulla spiaggia deserta,
prima di riprendere la corriera e tornare a casa. La primavera era inoltrata e
il bel tempo rese gradevole il viaggio. Quella trasferta rappresentò per nostra
madre una sorta di cerimonia funebre che il papà non aveva mai avuto e lei lo
visse, insieme a noi, con molta compostezza e solennità. Lasciò prima un
mazzolino di fiori, che aveva portato con sé, in balia delle onde, e poi gettò
un piccolo cartoccio nel mare, dopo essersi segnata il viso e il petto. Quindi
si raccolse in ginocchio sulla riva. Pronunciò il suo nome e lo affidò ai
gabbiani che volteggiavano rapidi sull’acqua appena increspata, si fermò per
qualche istante ad ascoltare il canto del vento e lo sciabordio delle onde che
sembravano riportarle la voce del papà, e in quello scambio di suoni e di
emozioni noi percepimmo distintamente le sue ultime parole: «Verrò presto a
trovarti». Dedicò un pensiero anche ai suoi vecchi genitori che, proprio negli
ultimi anni di vita, erano stati costretti a conoscere il dolore insopportabile
di una violenza tanto spietata. Chissà se almeno li avevano lasciati morire insieme?
Ammesso che morire insieme in quel modo disumano potesse essere un dono e non
un ultimo, ulteriore, sfregio.
Lungo la via del ritorno, per soddisfare la mia curiosità,
chiesi a mia madre cosa ci fosse nel pacchetto che aveva gettato nell’acqua, e
lei in modo sbrigativo mi rispose: «Ho consegnato al mare una poesia per
Enrico». Rimase poi silenziosa per tutto il resto della strada, come se fosse
ancora raccolta in preghiera vicino a lui.
Qualche tempo dopo, riparlando di quel viaggio, la mamma ci raccontò
del sogno che aveva fatto quella notte. Si era addormentata presto perché era
stanca ed emotivamente provata, ma prima aveva ripercorso nella sua mente
quell’intensa giornata. Aveva ripensato al suo incontro con il papà e alle
parole che si erano scambiati quella mattina sulla spiaggia. Quindi si
addormentò profondamente e sognò, sognò correndo indietro nel tempo, lontano
negli anni, al giorno in cui lo aveva incontrato, per la prima volta nella casa
della zia Olga, quando tutto doveva ancora iniziare. La mamma stava provando un
abito che la zia le aveva confezionato e che era quasi finito. Era allegra,
sorridente, civettuola e contenta per il vestito che indossava. Il papà doveva
sistemare dei cassetti difettosi che si chiudevano a fatica. Quando si trovarono
uno di fronte all’altro, i loro sguardi s’incrociarono e qualcosa scattò subito
tra di loro. Il papà si complimentò con la mamma perché l’abito che aveva
addosso era molto grazioso e le disse: «Signorina, mi piacerebbe saper tagliare
e cucire le stoffe per poterle confezionare anch’io un abito così».
Mia madre, stando al gioco, rispose: «Beh, lei è ancora giovane,
ha tutto il tempo per imparare» e sorrise in un modo che avrebbe voluto essere
ironico e che invece si rivelò soltanto molto dolce. Lei stessa se ne rese
conto e, colta da imbarazzo, gli chiese precipitosamente: «Quanti anni ha?».
Al che mio padre, che non voleva rivelare la sua età matura
rispose evasivamente: «Sono più bravo a tagliare il legno, le stoffe non sono
nelle mie corde».
«In effetti, le sue mani sono forti e robuste, ma non è detto
che ciò che non si è in grado di fare oggi non lo si possa apprendere un domani»
rispose mia madre che quindi tornò a insistere con la stessa domanda: «Quanti
anni ha?». A quel punto il papà, che non sapeva più come sottrarsi a quella richiesta,
rispose: «Io non conto gli anni, conto i soldi».
Sorpresa per quella risposta sibillina, mia madre capì subito la
personalità dell’uomo: «Credo che lei riuscirebbe a fare bene anche il sarto,
come pure altri lavori, perché è una persona molto ingegnosa». E mio padre che
voleva abbandonare a tutti i costi l’argomento dell’età, tornò alla carica
parlando di nuovo dei vestiti: «Su di lei gli abiti fanno una grande figura»,
disse, «dovrebbe averne molti»; e dopo una breve pausa: «Facciamo così, se mi
promette che se ne farà confezionare degli altri così graziosi, io costruirò
per lei un armadio dove potrà conservarli tutti».
«Grazie, è molto gentile, ne avrò certo bisogno» rispose mia
madre, soddisfatta di aver trovato un pretesto per rivedere quell’uomo. Si
salutarono con grandi sorrisi, ma nessuno dei due riusciva a staccare gli occhi
dall’altro: il papà era stato colpito da quei lineamenti delicati e minuti
della ragazza, che quell’abito nuovo faceva apparire più donna, con il corpetto
che segnava il suo seno piccolo ma rigoglioso. La mamma era stata attratta
dalla corporatura alta e robusta di quel giovane uomo, mentre con slancio aveva
immerso i suoi occhi dentro quelli di lui e vi aveva letto bontà, dolcezza e
affetto. I due giovani si erano innamorati fin da quel primo istante, e quando
mio padre consegnò alla mamma l’armadio che le aveva promesso, erano già
sposati, come ci raccontò, molti anni più tardi lei stessa, quando il papà non era
più con noi.
Durante l’estate tornammo ancora sulla spiaggia di Grado,
fermandoci in raccoglimento davanti al mare per rivolgere idealmente al papà i
nostri pensieri, ma nostra madre ritornava a casa sempre più triste e più
stanca di quando era partita, e allora noi cominciammo a pensare che quelle
gite non facessero bene alla mamma e architettammo qualcosa per distrarla.
Era ancora piena estate, quando Marco un giorno tornò a casa con
un vistoso pacco ben confezionato che porse nelle mani di nostra madre.
«Ti avevo detto, tempo fa, che quando avessi messo da parte
qualche soldo, ti avrei regalato un vestito solo per te, mamma: eccolo, spero
ti piaccia».
«Non dovevi spendere tutti quei soldi per me» rispose la mamma,
sostenuta ma commossa dalla generosità del figlio, «sai quante cose ci si
possono fare?».
«Ho diviso la spesa con Lucia» rispose Marco, provando ad
attenuare la preoccupazione di nostra madre.
Dopo aver aperto il pacco e averci ringraziati per l’abito che
le avevamo comprato, scese in camera per indossarlo. Nei giorni precedenti io e
mio fratello eravamo stati in città e dopo aver discusso quale modello e quale
fantasia del tessuto scegliere, decidemmo di acquistarne uno che ci consigliò
la commessa del negozio. Non era un abito elegante, perché entrambi sapevamo che
nostra madre non lo avrebbe gradito, ma era un vestito semplice e distinto, che
mostrava una fantasia a fiori, dai colori tenui e sfumati, composto da una
larga gonna a ruota plissettata, un busto con mezze maniche che segnava appena
la vita e una camicia bianca con un largo collo a V, abbellito da un fazzoletto
anch’esso colorato. Quando nostra madre uscì dalla stanza con indosso l’abito,
noi le battemmo le mani, perché sembrava una modella, anche se un po’
impacciata. Lei disse solo: «Non dovevate, però mi piace». E Marco aggiunse:
«Sarebbe piaciuto anche al papà».
Lo indossò solo qualche volta, nei giorni di festa, quando
usciva con Beatrice, che fu sorpresa per il nostro buon gusto, ma poi lo lasciò
nell’armadio per timore di rovinarlo, preferendo vestire l’abito di tutti i
giorni.
Quando a ottobre la mamma riprese la scuola, si sentì
rinfrancata perché i bambini che le giravano intorno la tenevano impegnata, le
davano gioia e lei si sentiva rianimata dal fatto che i suoi pensieri tristi
riuscivano a rimanere fuori dalla porta. Era pieno inverno e fuori c’era la
neve quando, una mattina, la mamma si accorse di avere la febbre; una tosse
stizzosa e ricorrente le impediva di respirare bene. Poiché questi sintomi non
accennavano a passare, dopo qualche giorno Giovanni chiamò il dottore, che
visitò la mamma e le ordinò le medicine da assumere, ma le impose anche di
lasciare quella stanza nel seminterrato, troppo umida e priva di luce: aveva contratto
una brutta broncopolmonite e il peso della stanchezza che da mesi avvertiva su
di sé, aveva favorito quella malattia. Beatrice e Giovanni si riunirono con i
loro figli per trovare una soluzione alla richiesta del dottore, ma fu il
vecchio Armando che liberò una stanza del primo piano, dove lui teneva raccolte
le sue vecchie cose, per lasciare il posto alla giovane donna e farla
trasferire là. Dopo un paio di giorni la nuova stanza era pronta. Era molto
luminosa perché aveva due grandi finestre, era anche più calda di quella nel
seminterrato e, una volta riordinata, anche molto accogliente. Nostra madre non
voleva accettare quello scambio perché sapeva di creare disturbo ai suoi amici
e padroni di casa, ma quella volta dovette cedere perché il nonno era stato
categorico: lei era ammalata e aveva bisogno di essere curata.
«Nella mia casa chi ha più bisogno ha la precedenza» disse con
tono autorevole, e aggiunse: «Terrai questa camera solo per te, mentre i tuoi
ragazzi, che ora sono grandi, e vanno sempre in giro, resteranno nel
seminterrato».
Grazie alla penicillina e all’ambiente più idoneo al suo stato,
un po’ alla volta nostra madre guarì, ma non le fu permesso di riprendere
subito il lavoro e la cosa rappresentò per lei un grande dispiacere, perché per
qualche mese rimase lontana dalla scuola. Ogni tanto alcuni bambini venivano a
suonare a casa per sapere come stava «la signora maestra» e quando sarebbe
tornata al suo lavoro. Il più delle volte lei si fermava a chiacchierare con
loro, perché quei segnali d’affetto, da parte dei suoi alunni, le facevano
grande piacere. E anche tutti gli occupanti della casa erano contenti di
tornare a sentire, tra quelle mura, le grida gioiose dei bambini. Se la
malattia fu la causa che tenne nostra madre lontana dalla scuola per alcuni
mesi, quella stessa circostanza favorì anche lo svilupparsi di una confidenza
ancora più stretta con Armando, il quale ogni giorno, dopo aver lasciato la sua
inseparabile pipa nella sua camera, bussava alla porta di Daniela per chiederle
come si sentisse, per portarle qualcosa da mangiare. Fermandosi quei pochi
minuti, approfittava per scambiare con lei qualche parola. Mia madre si sentiva
lusingata per quelle attenzioni, ma non voleva che Armando si preoccupasse per
lei. In realtà al vecchio contadino piaceva passare il tempo a parlare con
quella ancora giovane signora. Le raccontò la storia del suo incontro con
Elvira, i momenti più belli che avevano passato insieme, e anche della malattia
e della morte di lei, quando non era riuscita a sopportare la perdita del
secondo figlio, in guerra. Armando ne era uscito affranto e disorientato. Mia
madre lo ascoltava commossa e a sua volta gli raccontò del suo incontro con
Enrico; e quando gli riferì la frase che lui non contava gli anni ma i soldi,
il vecchio si mise a ridere con soddisfazione, perché quel giovane aveva
dimostrato di essere molto sveglio.
«Io l’avevo conosciuto quando era ancora un ragazzo» le disse
Armando, confermando che, nonostante fosse ancora così giovane, comunque «te
magnava i risi in testa», per dire che era perspicace e non si lasciava
intimidire da nessuno, il che fece davvero commuovere mia madre.
Quei consueti abboccamenti fra i due avevano finito per
diventare così naturali che mia madre ormai si sentiva completamente a suo agio
con il nonno e non si faceva più remore a sorridere liberamente alle sue
storie. Se un giorno, per qualsiasi ragione, fosse mancata la sua compagnia, o
lui fosse arrivato in ritardo, lei se ne sarebbe preoccupata. Quando poi guarì
completamente e riprese la sua vita ordinaria, alla mamma quel contatto abituale
con Armando mancava tanto, che appena tornava a casa dalla scuola andava a
cercarlo, si fermava con lui qualche minuto, se lo accarezzava, mentre il
vecchio si compiaceva di quell’affetto sincero che riscaldava gli ultimi anni
della sua vita tormentata e che saltuariamente suscitava perfino qualche
gelosia da parte di Beatrice. Ma Armando, sempre attento e saggio, provvedeva a
spegnere subito ogni malanimo, stringendo anche lei al suo fianco.
***
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