SOTTO IL SOLE DI GENNAIO - Romanzo 2015
Migliore Opera Prima premiata al Concorso letterario Unicorno di Rovigo nov. 2015
Una Venezia invernale e contemporanea è il palcoscenico suggestivo di una delicata storia d’amore tra Mario, architetto alle soglie della terza età, convinto che il controllo della ragione sia più forte del sentimento, e Valeria archeologa molto più giovane di lui, determinata, estroversa e spontanea, che viene attratta dalla figura dell'uomo maturo in cui trova quelle affinità che mancano invece nei suoi coetanei.
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IL BOOKTRAILER del libro
Il tema:
Un’insolita
storia d’amore tra Mario, architetto alle soglie della terza età e Valeria,
restauratrice di mosaici antichi, bella, capace e molto più giovane di lui che
scoprono di avere interessi comuni e forte attrazione reciproca. Valeria ha
alle spalle un matrimonio fallito, Mario, sposato da molti anni e certo di aver
vissuto con la moglie una grande storia d’amore, non riesce a risanare un
rapporto difficile con la figlia. Una Venezia invernale contemporanea è il
palcoscenico naturale di questa storia delicata, dove Mario, per quanto si
sforzi di arginarla per onorare la promessa fatta alla moglie, deve
registrare che la spontaneità del sentimento è più forte del controllo imposto
dalla ragione. Valeria, determinata, estroversa e spontanea, è attratta dalla
figura dell’uomo maturo e riflessivo con cui trova quelle affinità che mancano
nei suoi coetanei.
Sotto il sole di gennaio, esplora le fragilità e le sorprese di un amore tardivo che
avvierà la trasformazione di tutti protagonisti in cui ragione e sentimento si
scontrano alla ricerca di nuovi equilibri, prima dell’esito drammatico,
imprevedibile e toccante.
ESTRATTO
CAPITOLO 3
L’incontro
C’era grande confusione nel piccolo piazzale antistante la stazione di Mestre a causa dello sciopero dei ferrovieri che, da oltre due giorni, bloccava un gran numero di treni. Tutte le persone che dovevano partire si erano riversate sugli autobus allineati nel viale della stazione e nelle vie laterali dove questi mezzi non facevano in tempo ad arrivare che già erano stracarichi di passeggeri imbufaliti perché gli orari erano imprecisi e non c’era posto per tutti. Anche se aveva smesso di piovere da poco, la sera si annunciava assai fredda e umida, come capita sempre da queste parti a gennaio.
Al termine di una giornata di lavoro che si era rivelata particolarmente pesante, desideravo solo tornare a casa il prima possibile ma, per via dello sciopero, mi vidi costretto a servirmi della corriera, rassegnandomi così a far parte di quella folla di pendolari spazientiti. Fortuna volle che l’autobus diretto a Padova si fermasse proprio davanti al marciapiede dove mi trovavo io, così che, quando si spalancarono le porte, potei salire tra i primi. Stavo sistemando la mia borsa sulla cappelliera e non mi ero ancora seduto sulla poltroncina
della seconda la, quando dal finestrino vidi una giovane signora avvolta in un lungo cappotto grigio che mi faceva segno animatamente di tenerle il posto accanto al mio, mentre una lunga coda di persone si accalcava disordinatamente alle porte del mezzo. Poco convinto di poterla aiutare, le feci cenno che avrei fatto il possibile e, infatti, quasi contemporaneamente un signore, in modo cortese, mi chiese se il posto al mio fianco fosse ancora libero ed io, altrettanto cortesemente, gli risposi con una bugia, gli dissi che quel posto era
destinato alla mia signora, trattenuta indietro dalla folla, mentre le persone che salivano si contendevano i pochi posti ancora vuoti.
Ero piuttosto imbarazzato e guardavo in fondo al corridoio per cercare dove fosse finita la sconosciuta che mi aveva affidato quell’incarico che io, senza in verità alcun motivo ragionevole, avevo accettato. Poi, tornando a girarmi, mi trovai davanti proprio te, Valeria. La signora sconosciuta, che mi aveva preso di sorpresa salendo dalla porta anteriore, eri dunque tu, eppure – come ormai potrai immaginare – in quel momento per me avevi solo un’aria vagamente familiare, ma non avrei saputo dire né dove né quando ti avessi incontrata prima. Eri soltanto una debole impressione, qualcosa di simile ad un déjà-vu.
«Grazie per avermi tenuto il posto!».
Ti risposi, un po’ contrariato, che era stata un’impresa tutt’altro che facile e che un attimo ancora di ritardo e non avrei più potuto garantire nulla. Ma le parole mi morirono in bocca e, con esse, evaporò anche il fastidio, quando mi sorprese il tuo sorriso aperto e spontaneo. Due grandi occhi chiari e luminosi accendevano il tuo viso minuto e armonioso, incorniciato da folti capelli corti, biondissimi, che uscivano da sotto un berretto di lana azzurra. E ancora quella sensazione di familiarità. Provai a studiarti meglio.
Ai miei occhi apparivi come una donna giovane, sui trentacinque anni, non molto alta e in apparenza magra, essendo avvolta in un largo cappotto di lana che non lasciava intravedere la tua gura. Tenesti il cappotto per tutto il tempo del viaggio, a differenza del berretto di lana che togliesti non appena ti fosti seduta, ravvivandoti con la mano i capelli color miele che risaltarono nella luce grigia dell’inverno. Ti aiutai a sistemare la borsa sulla cappelliera e quindi mi sedetti, mentre ti scusavi per avermi importunato, spiegandomi però che non avevi nessuna voglia di ripetere il viaggio in piedi fino a Padova del giorno prima. Mi dicesti di chiamarti Valeria, che lavoravi a Mestre e che eri l’ennesima vittima dello sciopero dei treni.
Prima ancora che l’autobus iniziasse a muoversi, mi chiedesti se fossi appassionato di film di fantascienza e, sebbene ti avessi risposto di no, cominciasti a raccontarmi di un vecchio fi lm degli anni Cinquanta, un classico del genere, che avevi rivisto in TV qualche sera prima: il personaggio principale era il comandante di un’astronave che, con la sola forza del pensiero, riusciva a determinare eventi funesti su un pianeta lontano dalla Terra sul quale la sua nave spaziale si era persa. Non sapevo, allora, perché avessi scelto di raccontarmi quel lm, ma certo doveva piacerti molto, perché continuasti a parlarmene per quasi tutto il tragitto verso Padova, dicendomi che si trattava di un capolavoro, di una vera pietra miliare del cinema di fantascienza.
Ti seguii per un po’ ma poi persi il filo, badando piuttosto all’impressione, fattasi sottilmente tormentosa, di averti già vista o, quanto meno, che assomigliassi a qualcuno di mia conoscenza. Ragionavo in quei termini, mentre ero catturato dal tuo volto dolce e curato, dalle mutevoli espressioni che squisitamente accompagnavano le tue parole, dai tuoi occhi trasparenti e brillanti, di un colore tra l’azzurro e il grigio. Due orecchini pendenti, di madreperla azzurra, ne richiamavano il colore e la pulita limpidezza. Parlavi con un tono basso, quieto e regolare che solo a tratti si impennava per dare enfasi ad alcuni passaggi. Sceglievi con attenzione le parole, in modo che mi trasmettessero esattamente il quanto di apprensione e paura che la storia inquietante del film a tuo avviso conteneva. Intanto, le tue mani piccole e magre si muovevano in modo aggraziato davanti al viso per scandire il ritmo del racconto, mentre le dita affusolate, dalle unghie corte e ben curate, percorrevano agili la tastiera delle emozioni fantascienti che che tanto sembravano averti coinvolta.
Quante volte avevi visto quel film? Mi venne per no il dubbio che stessi recitando, tanto che t’interruppi e azzardai la mia ipotesi: «Scommetto che lei si occupa di teatro».
«Mi dispiace, ha perso la scommessa» mi rispondesti, alquanto divertita. «Faccio la restauratrice di mosaici antichi e lei?» mi chiedesti di rimando.
A quel punto anch’io mi presentai: «Sono un architetto e lavoro in un cantiere qui a Mestre... Dunque, lei restaura mosaici antichi...». Rimasi a pensarci su per un attimo. «Dai mosaici antichi alla fantascienza c’è un bel salto!» conclusi con un tono forse esageratamente sbalordito.
«Si dice che gli estremi si tocchino» ribattesti con un sorriso ironico, anche quello a me per nulla nuovo.
Ricordi, Valeria, poi come andò? Per osservarti più da vicino e risolvere il mistero che ti circondava, avevo messo il braccio destro sul bordo alto della tua poltroncina, ma il braccio stesso aveva nito per posartisi sulle spalle. Nei posti affollati, stipati di persone, com’era quell’autobus, spesso perdiamo contatto con il nostro corpo, quasi non ci appartenga più, né sapremmo dire dove esattamente siano le nostre estremità di cui, pertanto, non siamo più interamente responsabili. Quando mi accorsi del mio abbraccio tanto sconveniente quanto involontario, mi ritrassi subito e ti domandai scusa mortificato. Tu, inaspettatamente, mi prendesti in modo amichevole la mano e guardandomi con un sorriso con denziale mi dicesti: «Non si preoccupi, architetto, noi ci conosciamo già...».
Rimasi a bocca aperta, come un vero cretino. Dovetti fare uno sforzo enorme per non lasciar passare altro tempo in quel silenziostordito nel quale ero miserevolmente caduto.
«Ma lo sa che, da quando è salita sull’autobus, ci sto pensando anch’io, però non riesco proprio a ricordare dove...».
«A Mantova... lo scorso novembre... ricorda la festa per Fabio?».
«Ma certo!» esclamai portandomi una mano alla fronte. «Lei è l’archeologa che mi ha presentato Fabio! Abbia pazienza, sa...l’età...» terminai al colmo dell’imbarazzo, provando a buttarla sullo scherzo.
«Tecnicamente si chiama “demenza presenile”; in breve, l’Alzheimer!» ribattesti, scoppiando a ridere.
«Altro che pre-senile! Se guarda i miei capelli bianchi, concluderà che la mia è una demenza di piena senilità!» ti corressi, sciogliendo finalmente l’imbarazzo in una risata liberatoria.
Eppure non mi lasciasti passare la battuta. La tua naturale gentilezza ti indusse, già quella prima volta, a gratificarmi, insistendo sul fatto che i miei capelli non erano proprio bianchi, ma brizzolati. E poi, se non mi ero ricordato di te, non era colpa mia né, tanto meno, della mia età. «Magari, invece» affermasti con la massima serenità possibile, «sono stata io a non averla impressionata abbastanza».
Per quanto le cose stessero in effetti così, cercai cortesemente dimitigare quella tua affermazione: «Ma sa in quell’occasione c’erano così tante persone, così tanta confusione, che non mi ricordo francamente di nessuno che non conoscessi già da prima».
Mi rivolgesti uno sguardo di riconoscenza per la pietosa bugia che avevo appena nito di dire. Poi, con allegria, mi chiedesti: «Bene, allora sentiamo, quanti anni avrà mai lei?».
«Sessanta» risposi lapidario.
«Appena diciannove più di me... Vede che non è vecchio!».
«A lei piace la fantascienza ma lasci che le riveli una cosa: qui, sul pianeta Terra, diciannove anni sono una vita...».
E tu scoppiasti a ridere tanto che le persone in piedi, già esasperate dal viaggio, ti rivolsero sguardi infastiditi, dal momento che riuscivi a divertirti anche in quella confusione. Dopo esserti calmata, mi confidasti che tuo padre a sessantuno anni si era messo insieme ad una donna molto più giovane di lui. Parlavi a voce talmente bassa che le tue parole erano quasi del tutto coperte dal rumore dell’autobus che correva lungo l’A4. Per quanto avessi fatto fatica a seguirti, compresi dal tono che avevi usato che quell’argomento doveva starti molto a cuore. Così, mi limitai a dire che tuo padre era un uomo fortunato, ma poi commisi la leggerezza di chiederti se stesse ancora insieme a quella donna.
«Purtroppo, mio padre non c’è più».
«Mi dispiace...» dissi con uno sguardo imbarazzato per la gaffe che non ero stato capace di evitare.
«Oh, non si preoccupi, perché mio padre è stato davvero un uomo fortunato, come dice lei. Si sono amati moltissimo e, poco dopo mio papà, anche la sua compagna se n’è andata: non sono stati lontani che una manciata di giorni...».
Seguì un silenzio che non era ingombrante, ma solo una dolce riflessione appena venata di malinconia; tu, Valeria, hai sempre dimostrato questa capacità: mi riferisco, naturalmente, alla poesia che riesci ad esprimere con le parole.
«Ma torniamo al discorso di prima» riprendesti, completamente rasserenata, mettendo ne alla pausa. «Mi dica la verità: li dimostro quarantuno anni io?».
«No, affatto! Senta, gliene avrei dati dieci di meno...».
Mi guardasti annuendo lentamente e studiandomi tutta seria per capire se la mia fosse solo cortesia.
«Lo so» fu la tua conclusione soddisfatta, «è che mangio molta frutta!» e di nuovo scoppiasti a ridere come una bambina, mentre gli altri passeggeri ormai si erano rassegnati e non ci facevano più caso.
A contatto con gli altri, le persone per lo più antepongono quel che fanno a quel che sono: è una forma di difesa, una cautela legittima, dopotutto. Tanto più, dunque, quella volta apprezzai il fatto che tu non avessi attaccato subito a descrivermi il tuo lavoro. Ricordo invece che fui io, proseguendo nel discorso, a chiederti di parlarmene. A quel punto, il viso ti si illuminò, tanto era l’entusiasmo e la passione per l’attività che svolgevi. Mi raccontasti dei tuoi studi, della difficoltà di trovare uno sbocco professionale in quel settore, degli stage all’estero, del parcheggio per qualche anno nella nostra azienda e quindi della società di Milano che aveva apprezzato le tue qualità e che, dopo un anno, ti aveva assunta come coordinatrice di un team. Mi parlavi con tale disinvoltura e affabilità che mi sembrava ci conoscessimo da sempre. Io ti ascoltavo attentamente, in parte meravigliato per la precisione con cui descrivevi le tue storie, e in parte incredulo perché non apparivi più la ragazza sbarazzina chemi aveva raccontato il film di fantascienza, ma una persona matura che mostrava del talento in quel che faceva. Fu solo allora che, in una pausa del tuo racconto, ci presentammo davvero:
«Beh, comunque io sono Mario» ti dissi accennando un sorriso di cortesia.
«E io sono Valeria» rispondesti, sfoderando invece un gran sorriso e aggiungendo: «Adesso spero si ricorderà di me».
«Certo. D’ora in poi non la dimenticherò più, altrimenti dovrò sul serio rivolgermi ad un medico» replicai con una battuta.
Parlammo a lungo quella volta, Valeria, e quasi non ci accorgemmo del viaggio! Forse avremmo parlato ancora, come due amici che s’incontrano dopo una lunga assenza, se l’autobus non fosse arrivato a Padova e si fosse fermato bruscamente in piazzale Boschetti, la stazione delle corriere. Anche lì grande confusione di gente e di mezzi, mentre gli altoparlanti comunicavano le informazioni sui mezzi in arrivo e in partenza. Raccogliemmo le nostre borse e scendemmo ordinatamente. Intanto mi ero ricordato i particolari del nostro primo incontro a Mantova e ti chiesi incuriosito che ne avesse fatto l’avvocato che quella sera aveva chiaramente cercato di sedurti. Te lo chiesi pur sicuro del fatto che un uomo di quel tipo non potesse interessarti.
«Oh, non riuscivo più a togliermelo di torno»! dicesti mettendoti una mano sulla fronte. «Per fortuna, quella sera pioveva a dirotto e il nostro sapientissimo avvocato, capito di non avere possibilità con la sottoscritta, ha preferito tornarsene a casa, risparmiando a se stesso altra umidità e a me altra noia».
In realtà, anche quel giorno imperversava la pioggia e, sebbene dopo la lunga conversazione si fosse stabilita fra di noi una simpatia reciproca, il maltempo contribuì a rendere veloci i nostri saluti.
«Io vado verso gli ospedali» ti dissi.
«Io verso piazza degli Eremitani».
«Possiamo fare solo pochi passi insieme» osservai.
«Devo andare a trovare certi amici in via Altinate» dicesti in modo naturale, «mi vuole accompagnare?».
Consultai un attimo l’orologio: «Va bene... vorrà dire che passerò da via Altinate».
Ricordo che chiudesti il tuo ombrello, ti avvicinasti a me appoggiandoti al mio braccio e, con molta cortesia, mi dicesti di essere fortunata ad avermi come accompagnatore, mentre, con un pizzico d’ironia, ti facevo notare che ci stavamo bagnando perché il mio ombrello era piccolo e, il tuo, più grande, lo avevi appena chiuso.
«Vedo che a lei non dispiace scherzare» mi rispondesti con uno sguardo furbo, mentre la pioggia ci bagnava il viso e tu, in fretta, riaprivi il tuo ombrello. «Mi scusi, non mi ero accorta che il suo fosse un ombrello da single» concludesti, restituendomi l’ironia.
Poi, all’improvviso, ti chiesi di fermarti un attimo perché avevi assunto un aspetto strano e divertente, ma tu non potevi capire.
«Le conviene asciugarsi le gocce di pioggia che ha sul viso» ti dissi sorridendo, «perché sembra che lei stia piangendo. E visto che d’altra parte ride, non vorrei che le persone pensino che lei non sappia
se ridere o se piangere».
«Conserverò le lacrime per un’altra volta» deliberasti in un buffo tono solenne, asciugandoti il volto.
«Meglio conservare sorrisi che lacrime, non le pare?».
«Così giovane e già così saggio!» e di nuovo giù a ridere. Avevi una tale grazia, che niente di quel che dicevi avrebbe potuto offendermi o infastidirmi.
Arrivammo, in breve, in piazza degli Eremitani, poi all’incrocio
con via Altinate e ci fermammo davanti al portone della casa dov’eri attesa. In quel momento decisi di non chiederti il numero di telefono, perché volevo che quell’incontro nisse lì. D’altra parte, anche tu non mi chiedesti il mio, quasi che entrambi volessimo rifettere su cosa fare.
Ci salutammo e ci stringemmo la mano. Mi ringraziasti per il posto che ti avevo tenuto sull’autobus e ti scusasti per avermi “annoiato” – parole tue – con il film di fantascienza. Ti risposi che eri stata un’ottima compagnia e che conoscerti per la seconda volta era stato anche meglio della prima.
«Anche per me è stato più piacevole conoscerla di nuovo» dicesti.
Alla fine ognuno s’incamminò per la sua strada, ma dopo pochi passi mi sentii chiamare: «Mario, Mario».
Pronunciasti il mio nome con voce chiara e tranquilla. Mi girai su me stesso e rividi, con piacere, il tuo viso sempre sorridente.
«Mi dica...».
E tu con calma mi informasti di un convegno che si sarebbe svolto l’indomani, presso l’Hotel Plaza di Mestre, dove alloggiavi. Si trattava di una relazione pubblica presentata dal tuo gruppo di lavoro su un progetto per il restauro di alcuni mosaici antichi rinvenuti durante gli scavi per il recupero di un edi cio appartenente a una banca. «Se ha tempo e voglia, potrebbe venire a sentirci» fu la tua conclusione, in cui potei avvertire un tremito di attesa. E poi mi sorprendesti con le tue successive parole: «Mi farebbe piacere se venisse. Iniziamo alle diciotto». Infine, ancora con un pizzico d’ironia,aggiungesti: «Guardi che non serve l’abito da sera».
Io non avevo voglia di darti subito una risposta, semplicemente non avevo voglia di risponderti e così feci. «Grazie, ma credo di avere un altro impegno»: una frase qualunque, la prima che mi venne in mente, che non voleva essere una scusa, che non voleva essere proprio nulla, forse solo un modo un po’ brusco per sottrarmi all’attrazione del tuo sorriso.
Dalla mia indifferenza comprendesti che la cosa non mi aveva entusiasmato e così ci congedammo, probabilmente con un po’ di rassegnazione da parte di entrambi.
«Va bene, Mario. Arrivederci».
«Arrivederci, Valeria».
Tagliammo corto tutti e due. E ciascuno riprese la propria strada.
C’era grande confusione nel piccolo piazzale antistante la stazione di Mestre a causa dello sciopero dei ferrovieri che, da oltre due giorni, bloccava un gran numero di treni. Tutte le persone che dovevano partire si erano riversate sugli autobus allineati nel viale della stazione e nelle vie laterali dove questi mezzi non facevano in tempo ad arrivare che già erano stracarichi di passeggeri imbufaliti perché gli orari erano imprecisi e non c’era posto per tutti. Anche se aveva smesso di piovere da poco, la sera si annunciava assai fredda e umida, come capita sempre da queste parti a gennaio.
Al termine di una giornata di lavoro che si era rivelata particolarmente pesante, desideravo solo tornare a casa il prima possibile ma, per via dello sciopero, mi vidi costretto a servirmi della corriera, rassegnandomi così a far parte di quella folla di pendolari spazientiti. Fortuna volle che l’autobus diretto a Padova si fermasse proprio davanti al marciapiede dove mi trovavo io, così che, quando si spalancarono le porte, potei salire tra i primi. Stavo sistemando la mia borsa sulla cappelliera e non mi ero ancora seduto sulla poltroncina
della seconda la, quando dal finestrino vidi una giovane signora avvolta in un lungo cappotto grigio che mi faceva segno animatamente di tenerle il posto accanto al mio, mentre una lunga coda di persone si accalcava disordinatamente alle porte del mezzo. Poco convinto di poterla aiutare, le feci cenno che avrei fatto il possibile e, infatti, quasi contemporaneamente un signore, in modo cortese, mi chiese se il posto al mio fianco fosse ancora libero ed io, altrettanto cortesemente, gli risposi con una bugia, gli dissi che quel posto era
destinato alla mia signora, trattenuta indietro dalla folla, mentre le persone che salivano si contendevano i pochi posti ancora vuoti.
Ero piuttosto imbarazzato e guardavo in fondo al corridoio per cercare dove fosse finita la sconosciuta che mi aveva affidato quell’incarico che io, senza in verità alcun motivo ragionevole, avevo accettato. Poi, tornando a girarmi, mi trovai davanti proprio te, Valeria. La signora sconosciuta, che mi aveva preso di sorpresa salendo dalla porta anteriore, eri dunque tu, eppure – come ormai potrai immaginare – in quel momento per me avevi solo un’aria vagamente familiare, ma non avrei saputo dire né dove né quando ti avessi incontrata prima. Eri soltanto una debole impressione, qualcosa di simile ad un déjà-vu.
«Grazie per avermi tenuto il posto!».
Ti risposi, un po’ contrariato, che era stata un’impresa tutt’altro che facile e che un attimo ancora di ritardo e non avrei più potuto garantire nulla. Ma le parole mi morirono in bocca e, con esse, evaporò anche il fastidio, quando mi sorprese il tuo sorriso aperto e spontaneo. Due grandi occhi chiari e luminosi accendevano il tuo viso minuto e armonioso, incorniciato da folti capelli corti, biondissimi, che uscivano da sotto un berretto di lana azzurra. E ancora quella sensazione di familiarità. Provai a studiarti meglio.
Ai miei occhi apparivi come una donna giovane, sui trentacinque anni, non molto alta e in apparenza magra, essendo avvolta in un largo cappotto di lana che non lasciava intravedere la tua gura. Tenesti il cappotto per tutto il tempo del viaggio, a differenza del berretto di lana che togliesti non appena ti fosti seduta, ravvivandoti con la mano i capelli color miele che risaltarono nella luce grigia dell’inverno. Ti aiutai a sistemare la borsa sulla cappelliera e quindi mi sedetti, mentre ti scusavi per avermi importunato, spiegandomi però che non avevi nessuna voglia di ripetere il viaggio in piedi fino a Padova del giorno prima. Mi dicesti di chiamarti Valeria, che lavoravi a Mestre e che eri l’ennesima vittima dello sciopero dei treni.
Prima ancora che l’autobus iniziasse a muoversi, mi chiedesti se fossi appassionato di film di fantascienza e, sebbene ti avessi risposto di no, cominciasti a raccontarmi di un vecchio fi lm degli anni Cinquanta, un classico del genere, che avevi rivisto in TV qualche sera prima: il personaggio principale era il comandante di un’astronave che, con la sola forza del pensiero, riusciva a determinare eventi funesti su un pianeta lontano dalla Terra sul quale la sua nave spaziale si era persa. Non sapevo, allora, perché avessi scelto di raccontarmi quel lm, ma certo doveva piacerti molto, perché continuasti a parlarmene per quasi tutto il tragitto verso Padova, dicendomi che si trattava di un capolavoro, di una vera pietra miliare del cinema di fantascienza.
Ti seguii per un po’ ma poi persi il filo, badando piuttosto all’impressione, fattasi sottilmente tormentosa, di averti già vista o, quanto meno, che assomigliassi a qualcuno di mia conoscenza. Ragionavo in quei termini, mentre ero catturato dal tuo volto dolce e curato, dalle mutevoli espressioni che squisitamente accompagnavano le tue parole, dai tuoi occhi trasparenti e brillanti, di un colore tra l’azzurro e il grigio. Due orecchini pendenti, di madreperla azzurra, ne richiamavano il colore e la pulita limpidezza. Parlavi con un tono basso, quieto e regolare che solo a tratti si impennava per dare enfasi ad alcuni passaggi. Sceglievi con attenzione le parole, in modo che mi trasmettessero esattamente il quanto di apprensione e paura che la storia inquietante del film a tuo avviso conteneva. Intanto, le tue mani piccole e magre si muovevano in modo aggraziato davanti al viso per scandire il ritmo del racconto, mentre le dita affusolate, dalle unghie corte e ben curate, percorrevano agili la tastiera delle emozioni fantascienti che che tanto sembravano averti coinvolta.
Quante volte avevi visto quel film? Mi venne per no il dubbio che stessi recitando, tanto che t’interruppi e azzardai la mia ipotesi: «Scommetto che lei si occupa di teatro».
«Mi dispiace, ha perso la scommessa» mi rispondesti, alquanto divertita. «Faccio la restauratrice di mosaici antichi e lei?» mi chiedesti di rimando.
A quel punto anch’io mi presentai: «Sono un architetto e lavoro in un cantiere qui a Mestre... Dunque, lei restaura mosaici antichi...». Rimasi a pensarci su per un attimo. «Dai mosaici antichi alla fantascienza c’è un bel salto!» conclusi con un tono forse esageratamente sbalordito.
«Si dice che gli estremi si tocchino» ribattesti con un sorriso ironico, anche quello a me per nulla nuovo.
Ricordi, Valeria, poi come andò? Per osservarti più da vicino e risolvere il mistero che ti circondava, avevo messo il braccio destro sul bordo alto della tua poltroncina, ma il braccio stesso aveva nito per posartisi sulle spalle. Nei posti affollati, stipati di persone, com’era quell’autobus, spesso perdiamo contatto con il nostro corpo, quasi non ci appartenga più, né sapremmo dire dove esattamente siano le nostre estremità di cui, pertanto, non siamo più interamente responsabili. Quando mi accorsi del mio abbraccio tanto sconveniente quanto involontario, mi ritrassi subito e ti domandai scusa mortificato. Tu, inaspettatamente, mi prendesti in modo amichevole la mano e guardandomi con un sorriso con denziale mi dicesti: «Non si preoccupi, architetto, noi ci conosciamo già...».
Rimasi a bocca aperta, come un vero cretino. Dovetti fare uno sforzo enorme per non lasciar passare altro tempo in quel silenziostordito nel quale ero miserevolmente caduto.
«Ma lo sa che, da quando è salita sull’autobus, ci sto pensando anch’io, però non riesco proprio a ricordare dove...».
«A Mantova... lo scorso novembre... ricorda la festa per Fabio?».
«Ma certo!» esclamai portandomi una mano alla fronte. «Lei è l’archeologa che mi ha presentato Fabio! Abbia pazienza, sa...l’età...» terminai al colmo dell’imbarazzo, provando a buttarla sullo scherzo.
«Tecnicamente si chiama “demenza presenile”; in breve, l’Alzheimer!» ribattesti, scoppiando a ridere.
«Altro che pre-senile! Se guarda i miei capelli bianchi, concluderà che la mia è una demenza di piena senilità!» ti corressi, sciogliendo finalmente l’imbarazzo in una risata liberatoria.
Eppure non mi lasciasti passare la battuta. La tua naturale gentilezza ti indusse, già quella prima volta, a gratificarmi, insistendo sul fatto che i miei capelli non erano proprio bianchi, ma brizzolati. E poi, se non mi ero ricordato di te, non era colpa mia né, tanto meno, della mia età. «Magari, invece» affermasti con la massima serenità possibile, «sono stata io a non averla impressionata abbastanza».
Per quanto le cose stessero in effetti così, cercai cortesemente dimitigare quella tua affermazione: «Ma sa in quell’occasione c’erano così tante persone, così tanta confusione, che non mi ricordo francamente di nessuno che non conoscessi già da prima».
Mi rivolgesti uno sguardo di riconoscenza per la pietosa bugia che avevo appena nito di dire. Poi, con allegria, mi chiedesti: «Bene, allora sentiamo, quanti anni avrà mai lei?».
«Sessanta» risposi lapidario.
«Appena diciannove più di me... Vede che non è vecchio!».
«A lei piace la fantascienza ma lasci che le riveli una cosa: qui, sul pianeta Terra, diciannove anni sono una vita...».
E tu scoppiasti a ridere tanto che le persone in piedi, già esasperate dal viaggio, ti rivolsero sguardi infastiditi, dal momento che riuscivi a divertirti anche in quella confusione. Dopo esserti calmata, mi confidasti che tuo padre a sessantuno anni si era messo insieme ad una donna molto più giovane di lui. Parlavi a voce talmente bassa che le tue parole erano quasi del tutto coperte dal rumore dell’autobus che correva lungo l’A4. Per quanto avessi fatto fatica a seguirti, compresi dal tono che avevi usato che quell’argomento doveva starti molto a cuore. Così, mi limitai a dire che tuo padre era un uomo fortunato, ma poi commisi la leggerezza di chiederti se stesse ancora insieme a quella donna.
«Purtroppo, mio padre non c’è più».
«Mi dispiace...» dissi con uno sguardo imbarazzato per la gaffe che non ero stato capace di evitare.
«Oh, non si preoccupi, perché mio padre è stato davvero un uomo fortunato, come dice lei. Si sono amati moltissimo e, poco dopo mio papà, anche la sua compagna se n’è andata: non sono stati lontani che una manciata di giorni...».
Seguì un silenzio che non era ingombrante, ma solo una dolce riflessione appena venata di malinconia; tu, Valeria, hai sempre dimostrato questa capacità: mi riferisco, naturalmente, alla poesia che riesci ad esprimere con le parole.
«Ma torniamo al discorso di prima» riprendesti, completamente rasserenata, mettendo ne alla pausa. «Mi dica la verità: li dimostro quarantuno anni io?».
«No, affatto! Senta, gliene avrei dati dieci di meno...».
Mi guardasti annuendo lentamente e studiandomi tutta seria per capire se la mia fosse solo cortesia.
«Lo so» fu la tua conclusione soddisfatta, «è che mangio molta frutta!» e di nuovo scoppiasti a ridere come una bambina, mentre gli altri passeggeri ormai si erano rassegnati e non ci facevano più caso.
A contatto con gli altri, le persone per lo più antepongono quel che fanno a quel che sono: è una forma di difesa, una cautela legittima, dopotutto. Tanto più, dunque, quella volta apprezzai il fatto che tu non avessi attaccato subito a descrivermi il tuo lavoro. Ricordo invece che fui io, proseguendo nel discorso, a chiederti di parlarmene. A quel punto, il viso ti si illuminò, tanto era l’entusiasmo e la passione per l’attività che svolgevi. Mi raccontasti dei tuoi studi, della difficoltà di trovare uno sbocco professionale in quel settore, degli stage all’estero, del parcheggio per qualche anno nella nostra azienda e quindi della società di Milano che aveva apprezzato le tue qualità e che, dopo un anno, ti aveva assunta come coordinatrice di un team. Mi parlavi con tale disinvoltura e affabilità che mi sembrava ci conoscessimo da sempre. Io ti ascoltavo attentamente, in parte meravigliato per la precisione con cui descrivevi le tue storie, e in parte incredulo perché non apparivi più la ragazza sbarazzina chemi aveva raccontato il film di fantascienza, ma una persona matura che mostrava del talento in quel che faceva. Fu solo allora che, in una pausa del tuo racconto, ci presentammo davvero:
«Beh, comunque io sono Mario» ti dissi accennando un sorriso di cortesia.
«E io sono Valeria» rispondesti, sfoderando invece un gran sorriso e aggiungendo: «Adesso spero si ricorderà di me».
«Certo. D’ora in poi non la dimenticherò più, altrimenti dovrò sul serio rivolgermi ad un medico» replicai con una battuta.
Parlammo a lungo quella volta, Valeria, e quasi non ci accorgemmo del viaggio! Forse avremmo parlato ancora, come due amici che s’incontrano dopo una lunga assenza, se l’autobus non fosse arrivato a Padova e si fosse fermato bruscamente in piazzale Boschetti, la stazione delle corriere. Anche lì grande confusione di gente e di mezzi, mentre gli altoparlanti comunicavano le informazioni sui mezzi in arrivo e in partenza. Raccogliemmo le nostre borse e scendemmo ordinatamente. Intanto mi ero ricordato i particolari del nostro primo incontro a Mantova e ti chiesi incuriosito che ne avesse fatto l’avvocato che quella sera aveva chiaramente cercato di sedurti. Te lo chiesi pur sicuro del fatto che un uomo di quel tipo non potesse interessarti.
«Oh, non riuscivo più a togliermelo di torno»! dicesti mettendoti una mano sulla fronte. «Per fortuna, quella sera pioveva a dirotto e il nostro sapientissimo avvocato, capito di non avere possibilità con la sottoscritta, ha preferito tornarsene a casa, risparmiando a se stesso altra umidità e a me altra noia».
In realtà, anche quel giorno imperversava la pioggia e, sebbene dopo la lunga conversazione si fosse stabilita fra di noi una simpatia reciproca, il maltempo contribuì a rendere veloci i nostri saluti.
«Io vado verso gli ospedali» ti dissi.
«Io verso piazza degli Eremitani».
«Possiamo fare solo pochi passi insieme» osservai.
«Devo andare a trovare certi amici in via Altinate» dicesti in modo naturale, «mi vuole accompagnare?».
Consultai un attimo l’orologio: «Va bene... vorrà dire che passerò da via Altinate».
Ricordo che chiudesti il tuo ombrello, ti avvicinasti a me appoggiandoti al mio braccio e, con molta cortesia, mi dicesti di essere fortunata ad avermi come accompagnatore, mentre, con un pizzico d’ironia, ti facevo notare che ci stavamo bagnando perché il mio ombrello era piccolo e, il tuo, più grande, lo avevi appena chiuso.
«Vedo che a lei non dispiace scherzare» mi rispondesti con uno sguardo furbo, mentre la pioggia ci bagnava il viso e tu, in fretta, riaprivi il tuo ombrello. «Mi scusi, non mi ero accorta che il suo fosse un ombrello da single» concludesti, restituendomi l’ironia.
Poi, all’improvviso, ti chiesi di fermarti un attimo perché avevi assunto un aspetto strano e divertente, ma tu non potevi capire.
«Le conviene asciugarsi le gocce di pioggia che ha sul viso» ti dissi sorridendo, «perché sembra che lei stia piangendo. E visto che d’altra parte ride, non vorrei che le persone pensino che lei non sappia
se ridere o se piangere».
«Conserverò le lacrime per un’altra volta» deliberasti in un buffo tono solenne, asciugandoti il volto.
«Meglio conservare sorrisi che lacrime, non le pare?».
«Così giovane e già così saggio!» e di nuovo giù a ridere. Avevi una tale grazia, che niente di quel che dicevi avrebbe potuto offendermi o infastidirmi.
Arrivammo, in breve, in piazza degli Eremitani, poi all’incrocio
con via Altinate e ci fermammo davanti al portone della casa dov’eri attesa. In quel momento decisi di non chiederti il numero di telefono, perché volevo che quell’incontro nisse lì. D’altra parte, anche tu non mi chiedesti il mio, quasi che entrambi volessimo rifettere su cosa fare.
Ci salutammo e ci stringemmo la mano. Mi ringraziasti per il posto che ti avevo tenuto sull’autobus e ti scusasti per avermi “annoiato” – parole tue – con il film di fantascienza. Ti risposi che eri stata un’ottima compagnia e che conoscerti per la seconda volta era stato anche meglio della prima.
«Anche per me è stato più piacevole conoscerla di nuovo» dicesti.
Alla fine ognuno s’incamminò per la sua strada, ma dopo pochi passi mi sentii chiamare: «Mario, Mario».
Pronunciasti il mio nome con voce chiara e tranquilla. Mi girai su me stesso e rividi, con piacere, il tuo viso sempre sorridente.
«Mi dica...».
E tu con calma mi informasti di un convegno che si sarebbe svolto l’indomani, presso l’Hotel Plaza di Mestre, dove alloggiavi. Si trattava di una relazione pubblica presentata dal tuo gruppo di lavoro su un progetto per il restauro di alcuni mosaici antichi rinvenuti durante gli scavi per il recupero di un edi cio appartenente a una banca. «Se ha tempo e voglia, potrebbe venire a sentirci» fu la tua conclusione, in cui potei avvertire un tremito di attesa. E poi mi sorprendesti con le tue successive parole: «Mi farebbe piacere se venisse. Iniziamo alle diciotto». Infine, ancora con un pizzico d’ironia,aggiungesti: «Guardi che non serve l’abito da sera».
Io non avevo voglia di darti subito una risposta, semplicemente non avevo voglia di risponderti e così feci. «Grazie, ma credo di avere un altro impegno»: una frase qualunque, la prima che mi venne in mente, che non voleva essere una scusa, che non voleva essere proprio nulla, forse solo un modo un po’ brusco per sottrarmi all’attrazione del tuo sorriso.
Dalla mia indifferenza comprendesti che la cosa non mi aveva entusiasmato e così ci congedammo, probabilmente con un po’ di rassegnazione da parte di entrambi.
«Va bene, Mario. Arrivederci».
«Arrivederci, Valeria».
Tagliammo corto tutti e due. E ciascuno riprese la propria strada.
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